Sezione 7 | DOPO LA LIBERAZIONE

Vetrina 1 | Verso la normalità

Tra le condizioni politiche dell’armistizio concluso tra il governo Badoglio e le forze armate anglo-americane, inevitabilmente ci fu l’abrogazione delle leggi razziali emanate dallo Stato fascista. Per quanto nella pratica si cessasse immediatamente di applicarle, furono però necessari degli anni affinché fosse smantellato l’intricato tessuto normativo antiebreo, radicato soprattutto nel settore amministrativo del Paese.

Al di là delle difficoltà effettive, è innegabile che, all’indomani della caduta del regime, le forze politiche che condussero l’Italia fuori dalla guerra non ebbero la sensibilità di dare un forte segnale di rottura con il passato, anche e soprattutto attraverso un immediato atto formale. Bisognò attendere sino al 20 gennaio del 1944 perché vedesse la luce il primo provvedimento abrogativo generale (1).

Seguirono norme, disposizioni e circolari che progressivamente si occuparono di ripristinare un equo diritto giuridico e sociale in tutti i disparati settori che erano stati toccati dalla precedente legislazione razziale (2).

A conflitto terminato, giunse anche il momento di iniziare a fare i primi censimenti e le prime valutazioni raccogliendo quante più informazioni possibili. Così fu diramato a tutte le prefetture del Regno un “questionario sulla questione ebraica in Italia” che, una volta compilato, avrebbe dovuto dare contezza sia dell’attuale stato di cose che di quanto accaduto, soprattutto in materia di deportazione. Si legge: «Le leggi razziali hanno avuto in questa Provincia scarsa applicazione nei casi concreti, in quanto i cittadini e gli Organi amministrativi che avrebbero dovuto applicarle, cercarono, in quanto possibile, di mitigarne gli effetti. Giunto il tedesco, coadiuvato dal delatore fascista, iniziò la vera persecuzione razziale, mettendosi alla caccia degli ebrei; ma con poco successo, sia perché la maggior parte degli ebrei si erano rifugiati in altre provincie … sia perché, per quelli rimasti, cittadini e clero si prodigarono a nasconderli e, per salvarli, affrontarono spesso gravissimo pericolo per la propria persona e per quella dei familiari» (3).

È indubbio che, durante gli anni della vessazione e persecuzione, uomini coraggiosi e moralmente integri aiutarono, a Bologna come in altri luoghi, i propri concittadini ebrei anche a rischio della vita. Ma è altrettanto certo che quanto scrisse il prefetto tradiva una percezione ristretta e ancora alterata di ciò che era realmente accaduto, ossia un eccidio.

1. Copia del Regio decreto legge 20 gennaio 1944 n. 25, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
2. Il ministro dell’interno ai prefetti, 12 ottobre 1944, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
3. Il prefetto al Ministero dell’interno, 21 settembre 1945, Questura di Bologna, Ufficio ebrei

Vetrina 2 | Il difficile ritorno a casa

Finita la guerra e dissolto l’incubo dei lager nazisti, era ora per gli ebrei di ricominciare a vivere e a lavorare e soprattutto di rientrare nelle proprie case, quasi tutte abbandonate per sottrarsi ai rastrellamenti nazifascisti. Ma, nel tornare a una parvenza di normalità, la popolazione ebrea di Bologna dovette affrontare, oltre agli effetti dei sequestri e delle confische, anche le conseguenze delle razzie compiute nell’ultima ventina di mesi nelle abitazioni e nelle aziende: alla persecuzione sancita per legge si erano aggiunti i soprusi, del tutto ingiustificati anche alla luce della normativa antisemita. I beni di proprietà dei cittadini ebrei, dai mobili alla biancheria, dai capi di abbigliamento alle suppellettili, erano stati spesso trafugati, finendo in mano a soggetti privati, e il loro recupero, se riuscì, fu decisamente arduo.

Ada Basevi era una vedova ebrea che, ricercata dalle SS tedesche e dalla Questura, lasciò la sua casa in via Cesare Battisti e si rifugiò sull’Appennino modenese con i figli, i quali si unirono alla lotta partigiana, in cui uno di loro, Franco, perse la vita a soli 13 anni. Tornata a Bologna dopo la liberazione, trovò la sua casa completamente depredata di tutti i mobili, che, attraverso «indagini personali», rintracciò in parte presso il portiere del suo stabile, il quale affermava che tutto il resto era stato portato via da agenti della Questura. Così Ada, sostenuta dall’Associazione nazionale partigiani (4), si rivolse proprio alla Questura: «Ora chiedo a lei Ill.mo signor Questore di far fare luce su tale fatto … Inoltre credo opportuno sottoporre il signor Ettore portiere dello stabile ad uno stringente interrogatorio» (5).

Fu invece la Prefettura a esporre al Commissario governativo degli alloggi, «per competenza e con preghiera di benevolo interessamento», il caso di Giacomo Bonacar, «già deportato in Germania a seguito della persecuzione razziale», il quale chiedeva che gli fosse restituito «il proprio appartamento sito in via Toscana n. 134/7°, in atto occupato dal sig. Montanari Roberto. Qualora non potesse ottenere la restituzione integrale di detto appartamento … si contenterebbe dell’assegnazione di due camere in cui potesse alloggiare con la figlia Giuditta, di anni 24» (6): allegata alla sua pratica, la Prefettura conservava, in una busta intestata al PNF di Bologna, la «chiave di cantina dello stabile di via Toscana n. 134/7° contenente mobilio ed altro appartenenti all’ebreo Bonacar G.» (7).

4. Il Comitato provinciale di Bologna dell’ANPI al questore, 6 luglio 1945, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
5. Ada Basevi al questore, 2 luglio 1945, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
6. Il prefetto al commissario governativo degli alloggi, 30 gennaio 1946, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici
7. Busta contenente la chiave di una cantina, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici

Vetrina 3 | La conta dei danni

Angelo Piazza, medico e docente universitario, godeva di un tenore di vita piuttosto elevato e possedeva un bell’appartamento di cinque camere, oltre ai servizi, al n. 31 di via Indipendenza. Qui abitava con la moglie Margherita e i figli, Rodolfo e Maria Luisa. L’antisemitismo fascista si abbatté su di lui e sulla sua famiglia con conseguenze tragiche: fu espulso dall’Università di Bologna nel 1939, a seguito delle prime norme razziali; poi, in cerca di salvezza durante l’occupazione tedesca, preferì sfollare con la famiglia a Riolo Terme, dove però fu arrestato nel dicembre ’43 con la moglie e la figlia. Deportati ad Auschwitz, vi trovarono la morte. Si salvò dall’arresto il solo Rodolfo, il quale, dopo la liberazione, al momento di rientrare nella loro abitazione, la trovò svuotata di tutti i loro averi e praticamente in rovina.

In realtà, già nel novembre 1944, nel periodo dei sequestri e delle confische delle proprietà ebraiche, due agenti di pubblica sicurezza avevano effettuato un sopralluogo dell’abitazione e ne avevano descritto le condizioni, in un italiano quantomeno incerto: «per accedervi abbiamo forzata il lucchetto della porta ed abbiamo rinvenuto l’appartamento così composto: n° 9 stanze con le cui finestre completamente rotte, soffitti lesionati, danni causati per le incursioni aeree nemiche. Nella stanza n° 1 è stata rinvenuta una stufa di ghisa per riscaldamento guasta; nella stanza n° 2 un apparecchio telefonico attaccato a muro guasto. Nel gabinetto manca il lavandino e nonché la vasca della camera da bagno; l’impianto elettrico è completamente guasto» (8).

Nel settembre 1946, Rodolfo, «in qualità di curatore temporaneo dei beni dei suoi famigliari», presentò all’Intendenza di finanza di Bologna una richiesta di risarcimento per danni di guerra, inviandone copia alla Prefettura (9). Alla richiesta era allegato un minuzioso «elenco dei beni mobili asportati … in seguito a saccheggio di militari tedeschi e militi italiani», che comprendeva biancheria, abiti, scarpe, tappeti e oggetti di vario genere, per un valore complessivo di £ 1.641.500 (10). Nel gennaio dell’anno seguente, Rodolfo si rivolse ancora alla Prefettura: aveva infatti bisogno di una dichiarazione «per uso danni guerra, dalla quale risultino gli estremi e l’entità delle asportazioni», per avviare una seconda pratica di risarcimento, questa volta presso l’Intendenza di finanza di Ravenna, «per i beni asportati ai suddetti famigliari in Riolo Bagni da militari tedeschi» (11).

8. Verbale di sopralluogo degli agenti di pubblica sicurezza, 12 novembre 1944, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici
9. Rodolfo Piazza alla Prefettura, 10 settembre 1946, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici
10. «Elenco dei danni di guerra del sig. Prof. Angelo Piazza», 20 agosto 1946, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici
11. Rodolfo Piazza alla Prefettura, s.d. ma gennaio 1947, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici

Vetrina 4 | La conta delle vittime

A guerra conclusa molti ebrei non erano tornati a casa, vittime degli internamenti nei campi di concentramento e della deportazione nei lager nazisti.

Poche settimane dopo la liberazione, il prefetto e il questore, provenienti entrambi dalle fila del Comitato di liberazione nazionale, tentarono di ricostruire anche se in maniera parziale gli effetti della persecuzione nazifascista nella provincia di Bologna.

Nel maggio del 1945 fu redatto un elenco dei cittadini ebrei dimessi dalle carceri di San Giovanni in Monte e inviati in campo di concentramento, con 36 nominativi annotati (12).

In seguito il prefetto richiese al questore ulteriori informazioni, ottenendo questa risposta: «con l’occupazione tedesca anche tutti gli ebrei di nazionalità italiana residenti in questa provincia furono ricercati ed arrestati per essere internati in campi di concentramenti, ma di ciò nessuna traccia esiste in questi atti. Consta però che furono internati nei campi di concentramenti di Fossolo di Carpi, Mantova, Verona e Bolzano, come pure consta che nel 1944 furono tutti trasferiti in Germania, ove gran parte sarebbero deceduti» (13).

Oltre a questi dati fornì anche l’elenco di 44 ebrei di nazionalità straniera internati nei campi di concentramento nel giugno 1940, con le relative località di destinazione (14) e l’elenco, consegnato alle SS nel febbraio 1944 degli ebrei di nazionalità germanica residenti nella provincia di Bologna (15).

12. Elenco dei cittadini ebrei dimessi dalle locali carceri ed inviati in campo di concentramento, maggio 1945, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici
13. Questore al Prefetto, 5 giugno 1945, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici
14. Elenco degli ebrei stranieri inviati in campo di concentramento, allegato a lettera 5 giugno 1945, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici
15. Elenco degli ebrei di nazionalità germanica, allegato a lettera 5 giugno 1945, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici

Vetrina 5 | Tra il desiderio di rimozione e di tornare a casa

La difficile eredità lasciata dalle leggi razziali provocò nell’immediato dopoguerra un certo imbarazzo a livello internazionale. Il rappresentante della Regia Ambasciata in Bruxelles, interrogato sulla questione ebraica in Italia, riferì che «la nostra legge sulla razza non solo aveva trovato scarsa applicazione … ma il popolo tutto e la quasi totalità degli organi amministrativi che avrebbero dovuto applicarla avevano invece gareggiato per sabotarla completamente o, per lo meno, per mitigarne al massimo gli effetti». Affermò inoltre che «le vere persecuzioni contro gli ebrei si erano iniziate, ad opera esclusiva dei tedeschi, principalmente dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943» (16).

Un altro aspetto riguardò il rimpatrio dei deportati italiani dalla Germania. La relazione scritta dal CLN di Borgo Panigale offrì alcuni scorci sulle condizioni degli internati militari e civili in attesa del ritorno a casa. «Avevo deciso dopo la famelicità ostentata da migliaia di internati nei riguardi di una certa quantità di pane condotta sui camion intervenuti alla spedizione, di promuovere su larga scala la raccolta del pane destinato al campo di concentramento e di smistamento di Bolzano». E ancora: «Vedevamo i prigionieri scendere o dai camion americani o dai vagoni delle tradotte coi volti congestionati dalla temperatura torrida di Bolzano, impolverati dalla lunghezza del viaggio, spossati dalla pesantezza dei propri fardelli, intontiti dall’emozione, dal nervosismo. Erano atrocemente dolorosi gli spettacoli innumerevoli che ciascuno impersonava nell’attraversare le strade di Bolzano. Ed ancor più disastroso il dilagare della cenciosa marea nei campi dove “Loro” dovrebbero accogliere il primo saluto dell’Italia». Venne poi rilevata la mancanza di sufficienti automezzi per garantire il trasporto verso Bologna che provocò «lo spettacolo al quale abbiamo dovuto assistere … l’agglomerarsi cioè di sessanta prigionieri bolognesi costretti a piangere nel salutare i compagni che, più fortunati avevano potuto riempire i camion» (17).

16. Circolare del Ministero dell'interno, 21 settembre 1945, Prefettura di Bologna, Ufficio asportazione beni ebraici
17. Comitato di Liberazione Nazionale di Borgo Panigale al Prefetto, 20 giugno 1945, Prefettura di Bologna, Gabinetto