Sezione 2 | UNA DOLOROSA VIA DI FUGA

Vetrina 1 | La normativa

Nell’intenzione degli “scienziati” firmatari del «Manifesto della razza» dovette esserci l’idea di fornire un incontrovertibile supporto scientifico alla politica antisemita fascista; in realtà così non fu, poiché risultò essere un documento lacunoso e talvolta contraddittorio. Esso infatti non venne strutturato come dimostrazione di una tesi, bensì come l’enunciazione di dieci assiomi innegabili. Partiva dall’assunto che le razze umane esistono e proseguiva affermando che ciò che differenzia un gruppo di esseri umani da un altro non è l’appartenenza a un dato popolo o nazione, intesi questi come concetti astratti «fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose», bensì l’identità puramente biologica manifestata da precisi caratteri fisici e psicologici ereditari.

Riducendosi a una sorta di ragionamento tautologico il manifesto non si costituì come quel chiaro apparato teorico di cui avrebbe necessitato il legislatore per poter formulare una prassi che accreditasse l’appartenenza alla razza ariana. Si cercò allora, attraverso una normativa che combinava l’elemento biologico-razziale con quello religioso e con quello della nazionalità, di definire chi dovesse dirsi ebreo.

Nel novembre del 1938 entrarono in vigore i provvedimenti per la difesa della razza e fra questi vi fu il divieto per i cittadini italiani di razza ariana di contrarre matrimonio con persone appartenenti ad altra razza. Le unioni celebrate precedentemente al decreto non furono annullate; fu quindi necessario accertare e regolamentare rispettivamente la posizione razziale di quanti erano o sarebbero nati da questi matrimoni “misti”.

Il modo più certo sembrò quello di far riferimento alla razza dei genitori; la questione invece risultò essere più complessa del previsto e fu presto necessario perfezionare la normativa attraverso l’emanazione di direttive più stringenti che guidassero i prefetti, incaricati di accertare la razza dei discendenti nati all’interno di queste unioni (1-2).

1. Circolare del Ministero dell’interno n. 1042/24, 23 settembre 1938, Prefettura di Bologna, Gabinetto
2. Circolare del Ministero dell’interno n. 1320/24, 09 marzo 1940, Prefettura di Bologna, Gabinetto

Vetrina 2 | I battesimi

Così nel 1939 fu disposto, riguardo i nati posteriormente al 1° ottobre del 1938, che «dovessero considerarsi non appartenenti alla razza ebraica, quelli per i quali fosse stata, entro i primi cinque giorni dalla nascita, fornita la prova … della loro appartenenza a religione diversa dall’ebraica» (1). Nel 1940 venne invece specificato che, per quanto l’esibizione del certificato di battesimo, ricevuto prima del 1° ottobre 1938, fosse «elemento religioso necessario», altresì non poteva «essere considerato come sufficiente e risolutivo per la definizione della posizione razziale del misto, potendo essere infirmato da manifestazioni di ebraismo» (2). Quindi, a dispetto di quanto dichiarato dal Manifesto, si utilizzò un parametro culturale, la religione, per determinare un presunto carattere biologico, la razza. Inoltre nelle due circolari del ’39 e del ’40 venne attribuito un diverso valore alla medesima data, il 1° ottobre 1938, prima intesa come estremo cronologico a partire dal quale i nascituri misti, a fronte di battesimo repentino, potevano essere considerati non appartenenti alla razza ebraica; successivamente divenne termine entro il quale bisognava aver ricevuto il sacramento cattolico.

Quest’ambiguità ingenerò sentimenti discordanti: speranza e sollievo in tutti quei genitori cattolici coniugati con ebrei, i quali si affrettarono a produrre i documenti necessari per dimostrare di aver battezzato i propri figli ben prima del termine utile stabilito (3-5); confusione e smarrimento in coloro che si illusero di potersi salvare dalle persecuzioni ricorrendo a tardivi e spesso inutili battesimi, i quali passavano per la dolorosa via dell’abiura e della rinnegazione della propria identità (6-7).

Il caso della famiglia dell’avvocato Ettore Bemporad risulta essere esemplificativo delle penose scelte a cui furono indotti molti ebrei. Da principio, nell’interesse dei cinque figli, fece istanza per ottenere l’autorizzazione a sostituire loro il cognome, ebraico, con quello ariano della madre, ma gli venne negata (8). Nel ‘41, appellandosi al fatto che tutti i figli avevano ricevuto il battesimo al momento della nascita, chiese che fossero riconosciuti ariani. Dopo due rifiuti e probabili provvedimenti per uno dei figli che, a dispetto della razza, prestava servizio militare (9), nel ’44 entrambi i coniugi si appellarono al «nuovo clima di equità e giustizia della instaurata Repubblica sociale», confidando che il Ministero potesse dichiarare «la arianità di tutti i loro figli» (10-11).

6. Un agente di P.S. al questore, 15 dicembre 1938, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
7. Olga Calabi al questore, 21 luglio 1942, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
8. Il commissario capo di P.S. alla Questura, 26 settembre 1940, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
9. Il questore di Ferrara al questore di Bologna, 11 maggio 1942, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
10. Ettore Bemporad al capo della provincia, 04 marzo 1942, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
11. Ettore Bemporad e Vittoria Caniato alla Direzione generale per la demografia e la razza, 04 marzo 1944, Questura di Bologna, Ufficio ebrei

Vetrina 3 | L’arianizzazione

Nonostante i ripetuti rifiuti, ciò che indusse i coniugi Bemporad a tentare un ulteriore ricorso, fu probabilmente la consapevolezza che ciò che chiedevano per i loro figli, una dichiarazione di arianità, non fosse cosa impossibile da ottenere. Infatti, nella dettagliata e puntuale relazione inviata alla Direzione generale per la demografia e la razza, si legge che nell’agosto del ’41 il Ministero aveva emesso «formale dichiarazione di arianità» (11); cosa differenziava quel figlio dagli altri quattro? Per quale motivo la Direzione continuava a rigettare le istanze di Bemporad?

La risposta, significativa e disarmante allo stesso tempo, è da ricercarsi nell’assenza di una procedura normata e nell’estrema discrezionalità adottata dal regime in materia razziale. Infatti, per quanto esistesse un apparato legislativo che per grandi linee definiva i parametri per l’attribuzione della discriminazione, nulla fu invece previsto per l’arianizzazione: un complesso procedimento che, in piena contraddizione con ogni logica razzistica, permetteva di “cambiare” la propria natura razziale.

Secondo le norme integrative del luglio 1939, su conforme parere dell’apposita Commissione, il quale aveva carattere segreto e non poteva esserne «rilasciata copia a chicchessia e per nessuna ragione» era facoltà del ministro dell’interno «dichiarare la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile».

L’assoluta discrezionalità di una tale procedura condusse a situazioni a dir poco paradossali, come nel caso dei Bemporad e dei Bigiavi.

Nella famiglia dell’avvocato Edoardo Bigiavi avviarono le pratiche per l’arianizzazione, nell’ordine, la moglie, Evelina Sacerdoti (14), il figlio Walter e la secondogenita Ivette (15), mentre lui fece richiesta di discriminazione (12-13). A riprova dell’arbitrarietà delle valutazioni della Commissione, accadde che Ivette, nonostante sia la madre che il fratello fossero già stati riconosciuti ariani, non riuscisse ad ottenere la medesima attestazione.

Ma ciò che risulta ancor più aberrante è che, nonostante Evelina Sacerdoti fosse stata dichiarata non ebrea nel ‘40, nell’aprile del ’44 venne arrestata insieme al marito Edoardo ed entrambi furono prima condotti nel campo di Fossoli e poi deportati ad Auschwitz, dal cui campo di sterminio non fecero ritorno.

12-13. Il vice console italiano presso Alessandria d’Egitto al prefetto (minuta e copia), 7-12 febbraio 1939, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
14. Il prefetto al questore, 16 febbraio 1940, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
15. Il maresciallo maggiore comandante al questore, 06 febbraio 1941, Questura di Bologna, Ufficio ebrei

Vetrina 4 | L’arianizzazione

Le numerose richieste di arianizzazione furono presto monetizzate, dando vita a un assai fiorente quanto vile mercato, in cui, grazie anche al carattere di segretezza che “proteggeva” da verifiche le motivazioni e gli atti della Commissione, i decreti furono venduti da funzionari corrotti e senza scrupoli.

Ma questa procedura, anche quando intrapresa senza l’umiliazione di ricorrere alla compiacenza dei vili al potere, necessitava comunque di risorse economiche non indifferenti. Infatti l’assistenza di un legale che sapesse imbastire ad arte il fascicolo per la richiesta, esibendo ed eventualmente producendo le prove necessarie, poteva fare la differenza.

È il caso di Bruno e Sergio Cottignoli, che insieme agli altri fratelli Turno e Rina Olga, certi della loro posizione razziale in quanto «figli di padre ariano, cattolico, battezzato fin dalla nascita» e cittadini italiani, ritenendo «di non appartenere alla religione ebraica, né di esser mai stati inscritti ad una comunità Israelitica, né di aver fatto in qualunque altro modo manifestazione di ebraismo … di appartenere da epoca precedente al 1° ottobre alla religione cattolica» (16), piuttosto che fare l’obbligatoria denuncia di appartenenza alla razza ebraica, come prescritto dai provvedimenti del 1938, inoltrarono richiesta di arianizzazione.

Diffidati dalle autorità a presentare la dovuta denuncia, Bruno e Sergio non provvidero e nel dicembre del 1943 furono arrestati con l’accusa di «trasferirsi clandestinamente in Svizzera allo scopo di sottrarsi all’applicazione delle recenti disposizioni di internamento» (17).

Inviati al campo di Fossoli, i due si fecero assistere da un avvocato che inoltrò nuova istanza di non appartenenza alla razza ebraica, ma questa volta corredata dei dovuti certificati di battesimo, sia dei fratelli che del di loro padre, degli attestati di cittadinanza italiana, oltre che con una postilla, sottoscritta dallo stesso legale, in cui si dichiarava, a seguito di visita medica, che i due fratelli non erano circoncisi.

L’istanza, seppur non accolta appieno, produsse gli effetti voluti e dopo poco meno di venti giorni Bruno e Sergio Cottignoli furono rilasciati «essendo stata riconosciuta la loro qualità di “misti”».

16. Bruno, Rina Olga, Sergio e Turno Cottignoli al ministro degli interni, 07 giugno 1942, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
17. Il capo della Provincia di Sondrio al Ministero degli interni, 14 dicembre 1943, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
18. Teocrito Di Giorgio al Questore, 03 gennaio 1944, Questura di Bologna, Ufficio ebrei
19. Il questore di Bologna al questore di Sondrio (minuta), 26 gennaio 1944, Questura di Bologna, Ufficio ebrei