2. Tra scrittura e decorazione

Nella dicotomia scrittura / decorazione, oltre alla possibilità di riscontrare diverse personalità responsabili ciascuna dell’una o dell’altra, troviamo spesso, sia nel mondo librario sia in quello archivistico, situazioni intermedie; il copista, o l’estensore del documento, si occupa anche di arricchirlo visivamente, con elementi formali che detengono spesso un valore estetico non eccezionale, e in genere sono realizzati
con strumenti e materiali legati alla scrittura del testo, come ben conosciamo per esempio nei disegni che arricchiscono i Memoriali dei notai bolognesi. Questo è il caso di molti dei pezzi esposti in questa sede, in cui le magistrature comunali felsinee curavano la realizzazione di registri o “uffici”, in cui l’aspetto decorativo si limita a caratterizzare il testo con motivi araldici, o raffigurazioni semplificate legate al
contenuto del pezzo. L’esecuzione è talvolta a tratto semplice, qualche volta appena toccato di colore, a inchiostro o con una gamma cromatica limitata; in casi più elaborati, invece, pennelli e pigmenti pittorici entrano in gioco, elevando tecnicamente, solo di rado stilisticamente, il livello dell’intervento.
Il valore formale, dunque, non appare trascinante: le forme iconiche vengono semplificate, e sottoposte a quella astrazione – nel senso letterale del termine – che caratterizza spesso il vocabolario delle immagini araldiche, pubbliche e private. Ma questo repertorio è di fondamentale interesse sia dal punto di
vista della volontà di autopresentazione istituzionale (il potere che si celebra e si propone in forme visive, più immediate e coinvolgenti dello scritto), sia da quello delle possibilità allusive e allegoriche delle scelte iconografiche.

Nel Liber securitatum del 1331 (n. 1), l’elefante dovrebbe alludere alla forza e alla stabilità dell’ufficio pubblico che non può subire condizionamenti, secondo quella lettura dell’animale che richiama la sua potenza: chi è grande non si cura delle meschinità e non può essere influenzato (in modo se si vuole parallelo all’impiego del pachiderma nell’araldica dei Malatesta); la sua resa è semplificata e quasi infantile: vuoi per debolezza stilistica, vuoi per l’impossibilità – ovvia – di recuperare una visione
diretta dell’animale, spesso evocato ma quasi mai visto e conosciuto nel Medioevo (come ci ricorda il caso del capitello di Aulnay sous Bois, dove ai due elefanti affrontati inclusi nel bestario fantastico ed esotico della chiesa si affianca la scritta esplicativa: HI SUNT ELEPHANTES).
Gli stemmi e i cimieri sulle coperte relative ai documenti dei Podestà e dei Capitani del Popolo della prima metà dal XIV secolo, o di poco dopo, mostrano interventi a pennello in cui predominante è l’aspetto cromatico, quasi invasivo, come peraltro sappiamo essere ben importante per queste caratterizzazioni celebrative. L’impronta stemmatica e araldica continua poi nel Tre e nel Quattrocento, e, se mai si innalza dal punto di vista estetico, accompagna però come un basso continuo visivo le profonde trasformazioni istituzionali che interessarono Bologna, e la condussero alla signoria de facto dei Bentivoglio.

L’Ufficio del Giudice al disco dell’Orso (n. 5), che tra l’altro aveva il compito di riscuotere i crediti dovuti al Comune di quelli che figuravano nelle liste nere fiscali, i libri malpagatorum, sceglie di mostrare una gustosa e vivida raffigurazione dell’animale, che qui non è simbolo negativo, ma anzi è associato di nuovo alla forza e all’inesorabilità (un’occhiata ai bestiari, e ai primi repertori zoologici au vif che sfoceranno − qui siamo ancora nel 1337 − nei taccuini tardogotici questo abile decoratore l’avrà certo data, senza arrivare a fargli precorrere Giovannino de Grassi o Pisanello). Le illustrazioni delle botti e delle castellate nei registri del dazio, a sé stanti o contestualizzate in scene di lavoro, sono debolissime dal punto di vista formale, ma si affiancano a quelle molto più elevate dei tacuina sanitatis come fonti visive per la storia della produzione, elaborazione e consumo agroalimentare.

Del tutto a parte, come qualità, i due casi librari esposti: il noto Libro dei creditori del Monte di pubbliche prestanze, del 1394 (n. 8), è un capolavoro assoluto della tarda attività del monopolista della produzione istituzionale trecentesca locale, Niccolò di Giacomo, ed evidenzia sia la rilevanza ormai acquisita del patrono Petronio (la costruzione della sua basilica era principiata nel 1390), con tanto di raffigurazione della città, sia l’idea di accumulazione di denaro, con quei mucchi di soldi che, quasi in modo onirico, ritorneranno in altri casi analoghi più avanti nel tempo (come in quello molto meno esteticamente interessante del 1449). Gli statuti delle Bollette (n. 14), assemblati con molta probabilità all’inizio degli anni Ottanta del XV secolo, esemplificano con la presenza dei tralci candidi dei “bianchi girari” l’irruzione delle tipologie decorative umanistiche, anche fuori dal loro contesto produttivo originario dei codici classici e letterari.