Lo sguardo del potere – Immagini d’apparato e manoscritti decorati negli archivi delle magistrature bolognesi medievali e moderne

1 - 28 Maggio 2017

Le immagini raccontano la storia. Molti anni fa Aby Warburg, esaminando il riemergere di figure antiche e pagane nei capolavori del Rinascimento, ha dimostrato quanto l’iconografia sia legata ai fenomeni del tempo che la produce ma abbia anche legami col lontano passato e con l’avvenire. In tempi più recenti, si comincia a comprendere l’importanza dell’intenzionalità delle immagini politiche, ideate per rappresentare e veicolare contenuti di potere. La mostra ne espone alcune, tratte dagli archivi delle magistrature che hanno governato Bologna tra il Medioevo e l’Età moderna. Sia che si tratti degli stemmi dei podestà e dei giudici sulle coperte in pergamena dei registri medievali, sia che si tratti dei manoscritti miniati del Sei-Settecento, ornati per esaltare il potere ormai labile della città dominata dal papa, ci troviamo spesso di fronte all’evocazione del periodo forse più glorioso della storia di Bologna: il Duecento, luogo mitico della memoria politica, quando per la prima volta arriva al potere il popolo, cioè i rappresentanti delle corporazioni d’arti e mestieri; e in parte il Trecento, quando, anche se per breve tempo e in forma ormai decisamente oligarchica, il popolo torna al potere. Bologna rimase insomma libero comune fino ai primi decenni del secolo XIV, con una ripresa del governo popolare nel 1376 e negli anni seguenti, prima di precipitare in varie esperienze signorili, rientrando infine nell’orbita dello Stato pontificio. E fu quella sempre più lontana luce di autonomia politica (ma anche artistica) a ispirare le raffigurazioni in cui si specchiava il potere sui documenti d’archivio per alcuni secoli successivi, nell’ambito di una duratura forma di governo locale, condivisa con il sovrano pontefice.

Un filo continuo dunque, in qualche modo parallelo a certe forme architettoniche (alcune ville del periodo neofeudale cinquecentesco, il completamento della basilica di San Petronio nel XVII secolo) in cui riemerge un’aura di medievalità, quasi in chiave di revival, certo motivato non da una scelta di campo estetica, ma da una volontà di continuità istituzionale o religiosa. La qualità in senso stretto formale dei pezzi è molto oscillante, e solo i due casi più “librari” (codici miniati, nn. 8 e 14) possono vantare un ruolo significativo nella storia dell’arte. Tuttavia, anche nelle decorazioni esclusivamente araldiche o nelle illustrazioni a semplice tratto − un po’ naïf − del periodo medievale, e nelle immagini standardizzate dei secoli successivi, troviamo motivi di interesse. Iconografici, per esempio: in relazione agli usi della produzione agroalimentare nei documenti del Dazio; o alla raffigurazione dello spazio urbano (per cui sono state già ampiamente sfruttate) nel caso dei volumi delle Insignia, in cui ormai le tendenze stilistiche e figurative hanno ben poco a che vedere con la tradizione della miniatura come arte autonoma, ma replicano in piccolo le istanze della produzione pittorica del tempo; o l’inserzione di motivi naturalistici esotici, un po’ inattesi. O araldico-simbolici, con la scelta (soprattutto tra XIV e XV secolo) di immagini e strutture visive con precisi e non sempre scontati significati allegorici. Un repertorio straordinario, senz’altro meno eclatante rispetto ad altri casi ben più noti, quali gli statuti e le matricole confraternali o delle Arti, che non perde però mai di vista la sua vocazione comunitaria e cittadina, in un senso sempre identitario.

La mostra, curata da Armando Antonelli, Francesca Boris, Bernardino Farolfi e Fabrizio Lollini, è articolata in due sezioni dedicate rispettivamente al Medioevo e all’Età moderna.