I. IL GENIO BOLOGNESE NEGLI ANNI DELLA REPUBBLICA

Il 19 giugno del 1796 le truppe del generale Bonaparte fanno il loro ingresso a Bologna: la città, finalmente libera dal vessillo pontificio, spera fiduciosa di vedere innalzati i colori di una patria ancora tutta da costruire. Il giorno dopo Napoleone abolisce ogni precedente autorità e concentra sia il potere legislativo che quello esecutivo nelle mani del Senato provvisorio, al quale viene però chiesto di giurare fedeltà direttamente alla Repubblica francese.
È questo il clima di rivolgimento istituzionale in cui eminenti personaggi della classe senatoria cittadina cercano uno spazio entro il quale operare. Fra loro anche il conte Carlo Caprara, aristocratico bolognese e membro del Senato della città fin dal 1780. Caprara, che già nel 1792 aveva aderito alle idee rivoluzionarie che serpeggiavano a Bologna, grazie alle sue doti diplomatiche si rivela subito l’uomo giusto per ricoprire il ruolo ufficioso di mediatore fra gli interessi del Senato e le imperiose volontà del generale francese.
Così, nel giugno del 1796, i senatori, desiderosi di un riscatto cittadino, chiedono «al sig. Caprara di proporre al sig. general Bonaparte per anco il permesso che li bolognesi portino la coccarda tricolore [ndr. tricolore cassato]. Ragguagliare il signor Caprara di tornare a parlare al signor generale onde permetta che la coccarda sia bianca e rossa» [1].

È solo l’inizio di un rapido percorso che, prendendo le mosse dall’uso degli antichi colori del Comune (basti pensare alla croce rossa in campo bianco), conduce il Senato, già durante la seduta del 29 giugno, a dichiarare approvato il proclama che stabilisce l’uso del tricolore per il nastro della coccarda.
Trascorrono pochi mesi e, fra il 16 e il 18 ottobre del 1796, a Modena si tiene il primo congresso cispadano, dove viene istituita la Giunta di difesa generale, organo di collegamento tra i governi provvisori di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, posto alle dirette dipendenze di Bonaparte. Fra i primi incarichi della Giunta c’è quello di dare vita alla Guardia nazionale della nascente Repubblica, organizzandola in ogni suo aspetto, non in ultimo in quello rappresentativo. Viene quindi emanata la Norma di formazione della legione italiana, dove, all’articolo VIII, è sancito che «ogni coorte avrà la sua bandiera a tre colori nazionali italiani, distinte per numero e adorne degli emblemi della Libertà» [2].

1. Verbale del Senato provvisorio, Bologna, 22 giugno 1796, in Archivio di Stato di Bologna, Senato provvisorio, Atti dell’Assunteria di magistrati

2. Proclama della Giunta di difesa generale «ai rispettivi Governi provvisionali della Federazione cispadana», in Archivio di Statp di Bologna, Raccolta de' bandi, notificazioni, editti &c. pubblicati in Bologna dopo l'ingresso delle truppe francesi. Accaduto li 18 giugno 1796, in Bologna, nella Stamperia camerale, [1796], parte settima

    1. UN INSOLITO TRICOLORE

    La bandiera dai tre colori nazionali menzionata nelle Norme in realtà non è ancora intesa come simbolo di un’istituzione statuale, bensì come semplice vessillo militare.
    Bisogna aspettare che si aprano i lavori del secondo congresso cispadano, tenutosi a Reggio Emilia dal 27 dicembre del 1796 al 9 gennaio del 1797, affinché si possa realmente parlare di tricolore. Infatti è in quella sede che la Confederazione delle repubbliche sorelle viene trasformata nella Repubblica cispadana, una e indivisibile, nonché bisognosa di una bandiera che la rappresenti.
    Il 7 gennaio del 1797 il deputato Giuseppe Compagnoni chiede «che si renda universale lo stendardo o bandiera cispadana di tre colori verde, bianco, rosso e che questi tre colori si usino anche nella coccarda cispdana la quale debba portarsi da tutti». La mozione è presto approvata dai cento deputati presenti nella sala patriottica del congresso. La Repubblica aveva dunque la sua nuova bandiera: è nato il Tricolore.

    I mutamenti messi in atto da Bonaparte però non si arrestano e, in base alla costituzione cispadana, il potere legislativo viene affidato a due camere – il Consiglio dei sessanta e il Consiglio dei trenta – mentre il potere esecutivo ad un direttorio formato da tre membri. È proprio il Direttorio esecutivo che, dovendosi dotare di un abito di parata, fa la scelta inusuale di vestire letteralmente i colori della neonata bandiera [3]. Fino ad allora le magistrature cittadine, anche nelle occasioni di rappresentanza, avevano difatti indossato abiti scuri, perlopiù neri (come testimoniano le numerose miniature delle Insignia degli Anziani consoli), mentre adesso il vestito vuol diventare esso stesso simbolo patrio. Per quanto la corrispondenza che intercorre fra il Consiglio dei sessanta e il Consiglio dei trenta circa la veste dei direttori non faccia mai riferimento ai colori da adottare, la fascia in vita e il pennacchio posto sul copricapo non lasciano certo dubitare che si tratti del tricolore della Repubblica.
    Il 4 maggio del 1797 viene così approvata la foggia dell’abito costituzionale del Direttorio esecutivo, incluse le modifiche proposte dallo stesso [4].
    Sembra quindi tutto pronto per poter imbastire i modelli, quando il generale Bonaparte dà l’ennesimo nuovo assetto agli organi di governo e, il 28 maggio, il Direttorio viene sostituito dal Comitato centrale cispadano: è l’epilogo di questo “insolito tricolore”.

    3. Figurino dell’abito di gran parata del Direttorio esecutivo, [Bologna, 4 maggio 1797], in Archivio di Stato di Bologna, Direttorio esecutivo e Comitato centrale della Repubblica cispadana, Recapiti del Direttorio esecutivo cispadano

    4. Approvazione del Consiglio dei sessanta circa la foggia dell’abito del Direttorio, Bologna, 4 maggio 1797, in Archivio di Stato di Bologna, Direttorio esecutivo e Comitato centrale della Repubblica cispadana, Recapiti del Direttorio esecutivo cispadano

    2. «SORGI ITALIA L’AURORA GIÀ SPLENDE»

    «Il canto di poeti è sempre stato uno dei mezzi più energici per eccitare lo spirito di patriottismo, per animare i combattenti alla pugna, e per raccomandare all’immortalità la memoria delle loro gesta».
    Sono queste le parole che aprono il proclama del 25 settembre del 1796, con il quale la Giunta di difesa generale invita i poeti d’Italia a comporre un inno che possa eguagliare in fervore la Marsigliese, affinché nel popolo si radichi «l’aborrimento alla schiavitù».
    Infatti la Giunta, che è l’organo di governo principale della Confederazione cispadana, oltre a provvedere agli affari di difesa e sicurezza, si occupa di tutto ciò che concerne l’organizzazione della legione italiana e quindi anche dell’inno che la deve accompagnare nelle battaglie. D’altronde, ribadisce la Giunta, «gli inni marziali, i cantori, lo strepito delle lire formavano una parte del corredo militare dei celebri guerrieri d’un tempo» e per questo «i guerrieri repubblicani» hanno bisogno di un inno che risvegli in loro «l’ardor della pugna e l’odio contro i tiranni».
    Ma soprattutto, è desiderio della Confederazione «che all’Italia non manchi tanto eccitamento al coraggio, e all’amore della libertà; non deve essere servile ad altro idioma, e deve avere un inno suo proprio». I poeti d’Italia vengono quindi invitati ad affrettarsi a spedire i loro componimenti, per poter avere in premio 60 scudi romani, ma soprattutto la gloria e il plauso della patria intera. I concorrenti, liberi nella loro ispirazione poetica, non devono però fare a meno di soddisfare le sette condizioni esposte in chiusura di proclama, desiderando per la patria un inno:

    «I. che tenda per fine primario ad eccitare l’ardor marziale
    II. che insinui l’odio contro tutti i privilegiati e tiranni
    III. che svegli l’amor della patria e della libertà
    IV. che sia intellegibile al volgo e meriti il suffragio dei dotti
    V. che sia vuoto d’ornamenti estranei all’oggetto
    VI. che sia adatto ad esser messo in musica
    VII. che vi sia strofa l’intercalare» [5].

    Trascorsi i termini del concorso, la Giunta comunica che a motivo delle «severe condizioni imposte dal nostro programma ai poeti italiani per la formazione di un inno patriottico» solo due componimenti «fra i moltissimi esposti al nostro esame, han soddisfatto al nostro invito» [6].

    5. Proclama della Giunta di difesa generale col quale si invitano i poeti d’Italia a scrivere un inno patriottico, Ferrara, 25 settembre 1796, in Archivio di Stato di Bologna, Giunta di difesa generale, Atti generali

    6. Minuta del documento che presenta i due inni selezionati dalla Giunta di difesa generale e trascrizione di uno dei due inni, [1797], in Archivio di Stato di Bologna, Giunta di difesa generale, Miscellanea di recapiti

    Numerosi sono dunque i cittadini che accolgono l’invito della Giunta di difesa generale, inviando i loro componimenti rigorosamente con il nome secretato, come da indicazione del proclama dove si specifica che «acciò non venga a sapersi il nome dell’autore prima che siasi giudicato dell’opera, ognuno in un angolo del foglio avrà cura di suggellare il primo nome». Fra questi il cittadino Giambattista Giusti, nato a Lucca ma ingegnere nella città di Bologna, oltre che stimato traduttore di opere classiche di autori greci e latini. Non a caso, nel 1814, l’amico Gioachino Rossini vorrà musicare la sua traduzione dell’Edipo di Sofocle [7]. Contravviene invece alle regole l’illustre cittadino Federico Cavriani, che palesa la paternità della sua ode proprio in apertura di componimento. Nato a Mantova ed educato presso le scuole gesuitiche, ben presto si reca nelle Marche dove frequenta il circolo culturale del brillante marchese Francesco Mosca, avendo così modo di nutrirsi delle idee giacobine e repubblicane coltivate dal nobile. Trasferitosi nel 1795 presso i possedimenti familiari di Cento, Cavriani inizia una fortunata carriera nell’amministrazione napoleonica, entrando poi a far parte della schiera degli amici più intimi del futuro imperatore [8].
    Ma oltre alle firme di stimati patrioti, i componimenti pervenuti alla Giunta portano anche i nomi di personaggi forse più legati alle cronache giudiziarie cittadine che non a quelle letterarie, come quelli del cittadino Antonio Succi e del dottor Angelo Sassoli. Annoverati fra gli studenti che nella notte del 13 novembre 1794 avevano partecipato all’infelice impresa rivoluzionaria guidata da Luigi Zamboni e Giovanni De Rolandis, furono poi entrambi sospettati di esserne stati i sabotatori interni.
    Potrebbe essere questo il motivo per cui sia Succi che Sassoli ritengono opportuno corredare l’ode di una lettera di accompagnamento dove spiegano motivazioni e intenti della loro partecipazione al concorso, dando rassicurazioni circa il «verace patriottismo» da cui sono animati [9-10].
    Eppure è solo il 1800 quando Ugo Foscolo, di ritorno dal fronte, accusa Sassoli, legista con velleità letterarie, di un’altra infamante impresa, ossia di aver manomesso le sue Ultime lettere di Jacopo Ortis. Forse deluso dal non aver ricevuto dalla Giunta la grazia richiesta, ossia che la sua ode fosse data alle pubbliche stampe, Angelo Sassoli aveva cercato la gloria altrove, trovando invece solo l’infamia del mistificatore.

    7. Ode di Giambattista Giusti, [1796], inArchivio di Stato di Bologna , Giunta di difesa generale, Miscellanea di recapiti

    8. Ode del cittadino Federico Cavriani, [1796], in Archivio di Stato di Bologna, Giunta di difesa generale, Miscellanea di recapiti

    9. Canzone patriottica di Antonio Succi e lettera allegata, Bologna, 13 dicembre 1796, in Archivio di Stato di Bologna, Giunta di difesa generale, Miscellanea di recapiti

    10. Lettera che Angelo Sassoli allega alla propria canzone, [1796], in Archivio di Stato di Bologna, Giunta di difesa generale, Miscellanea di recapiti

    3. IN UN SOL MINUTO IL NEMICO È PERDUTO

    «Il mio dovere, le mie circostanze m’impongono di scegliere e correre una carriera, onde essere di vantaggio alla patria, e di utile alla mia stessa famiglia. L’educazione, lo studio che ho fatto nella tattica, e nell’architettura militare, di cui vi presento, ed umilio alcuni saggi, scieglier
    mi fanno quest’arte.
    A voi perciò mi presento, o cittadini direttori, per ottenere una piazza d’ufficiale nelle vostre guardie a piedi, o a cavallo» [11].
    Così si rivolge Giuseppe Ladovini ai membri del Direttorio esecutivo, affinché possa essere arruolato nella Guardia nazionale, e per meglio avallare la sua candidatura ad ufficiale allega progetti di fortificazioni da lui ideate [12] nonché schemi di evoluzioni militari [13-14].
    Da sempre le guerre si sono combattute, prima ancora che sui campi di battaglia, nelle stanze delle accademie, dove filosofi e studiosi dell’arte militare introducevano i cadetti alle più sottili strategie. I documenti di cui si dispone non chiariscono dove si sia formato Ladovini; è lecito comunque ipotizzare che egli abbia potuto frequentare l’Accademia e conferenza di architettura militare di Modena, fondata nel 1757 dal duca Francesco III d’Este e poi chiusa nel 1772, oppure la Reale accademia di Savoia, soppressa da Napoleone nel 1798. Quello che invece si può ragionevolmente affermare è che la sua autocandidatura non ha dato gli esiti sperati: il nome di Ladovini, difatti, non figura tra quelli registrati nei ruoli matricolari della Guardia nazionale, conservati presso l’Archivio storico del Comune di Bologna.
    Probabilmente le proposte di Ladovini, per quanto formalmente ineccepibli, si presentano agli occhi del Direttorio come troppo accademiche e schematiche. Sono d’altronde gli anni in cui le imprevedibili e anticonvenzionali imprese belliche del generale Bonaparte corrono sulla bocca di tutta Europa: battaglie vinte nonostante l’inferiorità numerica, assecondando più l’istinto che uno schema.
    Forse ciò che manca a Ladovini sono proprio le qualità più importanti: l’ardore e l’eccitamento alla difesa del suolo patrio, cantati dai poeti e richiesti al nuovo esercito repubblicano.

    11. Giuseppe Ladovini ai cittadini direttori, Bologna, 29 aprile 1797, in Archivio di Stato di Bologna, Direttorio esecutivo e comitato centrale della Repubblica cispadana, Lettere al Direttorio esecutivo cispadano

    12. Disegno di un «nuovo sistema di fortificazione», [1797], Archivio di Stato di Bologna, Direttorio esecutivo e comitato centrale della Repubblica cispadana Lettere al Direttorio esecutivo cispadano

    13. Schema di «ritirata sopra un fiume», [1797], in Archivio di Stato di Bologna, Direttorio esecutivo e comitato centrale della Repubblica cispadana, Lettere al Direttorio esecutivo cispadano

    14. Schema di «armata che retrocede», [1797], in Archivio di Stato di Bologna, Direttorio esecutivo e comitato centrale della Repubblica cispadana, Lettere al Direttorio esecutivo cispadano