1. Carnevali barocchi e allegorie: le scene del “recitar cantando”
Il Seicento è stato il secolo della rappresentazione, del Gran Teatro del Mondo. La metafora del teatro come illusione e sogno, capace tuttavia di stupire e sembrare più affascinante della realtà, non poteva che scaturire dall’universo della cultura barocca. Mentre la prima società di massa veniva raccontata dai pittori insieme ai ritratti dei principi, per la prima volta sullo stesso piano, giungevano a maturazione gli studi classici iniziati dai tempi dell’umanesimo scoprendo un nuovo protagonista della storia: l’uomo moderno. Così, anche in campo musicale, al coro polifonico si sostituì a poco a poco la monodia, la composizione per voce solista avente una sola linea melodica, che rispondeva alla necessità di un’espressione più individuale e più profonda e ad una nuova sensibilità per i suoni di tipo armonico-verticale.
Il teatro e la musica erano destinati ad incontrarsi. Queste due forme d’arte classiche e riscoperte entrambe dagli studiosi si fusero, verso la fine del Cinquecento, in un nuovo tipo di spettacolo, che derivava dalle feste medievali e rinascimentali così come dal teatro greco, ma era tuttavia qualcosa di completamente nuovo: il melodramma. Il cambiamento fu teorizzato a Firenze, dove, a casa del conte Giovanni de’ Bardi, si riuniva quella che fu detta la Camerata de’ Bardi, un gruppo di gentiluomini amanti dell’antico e intenzionati a ricreare la musica greca. Nacque allora il “recitar cantando”, un modo di cantare in cui la musica doveva accrescere il senso delle parole. E proprio a Firenze si svolsero le prime azioni teatrali o “intermedi”, chiamati così perché venivano dati negli intervalli delle feste di corte. Nei primi decenni del Seicento, sull’onda di un successo straordinario, le rappresentazioni crebbero fino a diventare intere “opere” e furono riprese a Mantova, a Venezia, a Roma, a Bologna.
Nell’archivio della famiglia bolognese Marsigli sono conservate alcune immagini che sono testimonianza preziosa di queste origini del melodramma, e che aprono la nostra esposizione: si tratta di incisioni, realizzate da Jacques Callot e da un Carracci, di scene teatrali barocche. In effetti, Callot (1592-1635), incisore di Nancy, fu in Italia dal 1608 al 1621, precisamente a Firenze, alla corte dei Medici, dove realizzò fra l’altro una serie di incisioni denominata Capricci e ispirata al teatro e al Carnevale. I nostri esemplari illustrano con grande raffinatezza scenografie più o meno popolate di personaggi e spettacoli di corte, alcuni datati, come l’Intermedio della Veglia della liberazione del Tirreno che fu dato, come ci viene indicato, nella sala delle commedie del granduca di Toscana per il Carnevale del 1616 (docc. 1-2). Un’altra incisione (doc. 3), firmata “Carracius fe.(cit)” e raffigurante un drago in una foresta affollata, preso di mira da Apollo, è una delle incisioni di Agostino Carracci, ammirate da Callot, anch’esse dedicate agli intermedi medicei e datate agli ultimi decenni del Cinquecento. Altre incisioni senza data, ma verosimilmente appartenenti allo stesso contesto, mostrano i tipici allestimenti a scena fissa del teatro classico, destinate ad evolversi negli scenari a fondali mobili del teatro moderno (docc. 4-8). In ognuna di queste fantasiose scenografie, sorrette da un gusto compositivo classico e ricercato, si coglie anche quel senso di libertà espressiva che è tipico del barocco e che presiede alla nascita dello spettacolo operistico.
Il melodramma esordiva dunque in un clima di grande amore per la musica e di ricerca di nuove forme d’arte. A Bologna, del resto, città che sarebbe diventata una delle capitali dell’opera italiana, il teatro mantenne a lungo, come a Firenze, un carattere aristocratico e cortigiano, e i primi teatri nacquero nelle case dei nobili. Nel Seicento le attività musicali si svolgono ancora in luoghi pubblici come piazze o chiese, come mostra una miniatura del 1676, che raffigura un concerto tenuto da un’accademia all’interno di San Petronio (doc. 9). Una miniatura del 1722, invece, sempre appartenente alla serie celebrativa delle Insignia (doc. 10), allude con figure allegoriche alla rappresentazione di un’opera, l’Ormisda di Apostolo Zeno musicata da Giuseppe Maria Orlandini, al teatro Malvezzi nel maggio di quell’anno. Il titolo dell’opera è scritto sul drappo della tromba portata in volo dalla Fama sulla città di Bologna, mentre, a terra, le figure di Talia ed Euterpe cantano e suonano accompagnate da putti alati musicanti. Un modo per celebrare il trionfo del melodramma nei cieli delle città italiane.